Duch, le maître des forges de l'enfer di Rithy Panh presentato al Festival di Cannes
Rithy Pahn ha incontrato Duch, uno degli esponenti più autorevoli del terribile regime dei Khmer rossi, che ha dominato e straziato la Cambogia dal 1975 al 1979, chiedendo al maestro delle fucine dell’inferno di raccontare la sua storia di morte e orrore. E se, tra pentimento e orgoglio, sembra delinearsi il ritratto di una personalità mostruosamente complessa, quel che più conta è il sostanziale sovvertimento tra campo e fuoricampo. Percepiamo la presenza di Duch, ma vediamo solo il fantasma della morte e dell'orrore
Duch, nome di battaglia di Kaing Guek Eav, è stato uno degli esponenti più autorevoli del terribile regime dei Khmer rossi, che ha dominato e straziato la Cambogia dal 1975 al 1979. Matematico di formazione, insegnante e intellettuale, Duch assunse dapprima il ruolo di Capo del Servizio di Sicurezza del Comitato Centrale del partito e, alla direzione dell’M13, infernale prigione dei ribelli Khmer, mise a punto spietati metodi di interrogatorio e tortura. Proprio per la meticolosità quasi scientifica dimostrata nel perseguire i nemici del partito, al momento della costituzione del regime, Duch venne nominato dall’Angkar, “l’Organizzazione”, capo della polizia politica e direttore del famigerato S21, il carcere della morte istituito presso il vecchio liceo di Phnom Penh. Per quattro anni, dal ’75 al ’79, Duch è stato il responsabile della segregazione e dello sterminio di migliaia e migliaia di presunti ‘oppositori’ del regime: almeno 12000 persone, senza contare tutte le vittime scomparse, bruciate vive e ridotte in polvere. Preso nel 1999, nel 2009 è stato condannato, primo tra i gerarchi del regime, a 35 anni di carcere, con sentenza di primo grado emessa da un tribunale cambogiano secondo la giustizia penale internazionale.
In attesa dell’appello, Rithy Pahn, regista cambogiano di adozione francese, ha incontrato Duch per fargli raccontare la sua storia di maestro delle fucine dell’inferno. E i suoi ricordi dettagliati, la sua ricostruzione di quegli anni terribili, puntuale e lucidissima, occupano interamente questo film, fin quasi a divorarlo nella loro agghiacciante pesantezza. Il maestro, raffinato intellettuale, cerca di dare una spiegazione razionale ai suoi crimini: ‘se non avessi obbedito, sarei stato ucciso a mia volta’. E, con estrema chiarezza, puntualizza la consequenzialità ideologica dello sterminio messo in atto dal regime, ai fini della ricostruzione di un mondo nuovo, fondato sull’eliminazione totale delle distinzioni di sesso e classe e sul principio ognuno secondo le sue necessità.
E così nell’evidente pentimento personale (dettato anche da una conversione al cristianesimo), sembra mostrarsi, a tratti, la rivendicazione, quasi orgogliosa, di una consapevolezza intellettuale ai limiti del compiacimento. Ennesima contraddizione di una personalità mostruosamente complessa. Ma, alla fine, probabilmente, non è questo che conta davvero. Non è Duch, sempre in primo piano che racconta e snocciola i dati dell’orrore, con date, elenchi, numeri, quasi fosse un piccolo e pignolo ragioniere della morte, qua e là interrotto da immagini di repertorio e da brevi testimonianze di alcuni sopravvissuti. L’apparenza dell’immagine non vale a toglierci dagli occhi la sostanza della Storia. Il campo e il fuoricampo sono sovvertiti. E riusciamo solo a percepire solo sangue e dolore. (Aldo Spiniello)