Starbucks nella Città Proibita? «Un insulto alla Cina»
Lanciata da un blogger, la petizione per sfrattare il caffè della catena americana raccoglie mezzo milione di firme. L' iniziativa è stata lanciata da un annunciatore della Tv di Stato
PECHINO - No, il caffè Starbucks, lì dentro non lo vogliamo. Offende la Patria. È stato sufficiente un appello lanciato via Internet da un anchorman televisivo e la scintilla è divampata risvegliando da un lungo e quieto letargo la febbre del nazionalismo, unico sentimento che accomuna senza distinzioni e senza gelosie un miliardo e trecento milioni di cinesi. L' oggetto del contendere è un negozio della famosa catena americana che fa bella mostra di sé all' interno della Città Proibita, a due passi dal Palazzo dell' Armonia Suprema il cuore della vecchia Cina, dove si celebrava l' intronizzazione dei Figli del Cielo. La petizione si deve a Rui Chenggang del nono canale di Stato il quale in un suo blog ha scritto che la presenza di Starbucks nella dimora imperiale «non è globalizzazione ma un' offesa alla cultura cinese». È stato come accendere i motori di un cacciabombardiere. Nel giro di pochi giorni 530 mila persone, con un passa parola capillare, si sono date appuntamento sulla rete per lanciare una campagna in difesa della storia e delle tradizioni cinesi e, addirittura, per accusare i responsabili dell' amministrazione della Città Proibita di essere «schiavi del denaro». Un dibattito che ha preso forti venature nazionaliste. Starbucks, con tanto di autorizzazioni, si insediò nel perimetro imperiale ben sei anni fa. Ma fino ad oggi nessuno aveva ritenuto opportuno avanzare una sola contestazione. Come, del resto, nessuno ha ancora osato sollevare perplessità sia sulla presenza di una dozzina di bancarelle che vendendo lattine e bibite di ogni genere e marca contribuiscono a rovinare l' immagine di un gioiello monumentale visitato ogni anno dagli otto ai nove milioni di turisti sia sulla persistente abitudine di sputare o di spegnere mozziconi di sigarette sui marmi imperiali o dentro i contenitori d' acqua in bronzo che quattro o cinque secoli fa venivano utilizzati nelle emergenze antincendio. No. In gioco, questa volta, non è la sensibilità che sta convincendo le autorità di Pechino a promuovere una severa politica per la tutela dei tesori della storia e dell' arte e a risparmiarli dalle distruzioni e dalle speculazioni. Questa volta c' è dell' altro. L' orgoglio patriottico in Cina è come una fiamma sempre accesa. In certi momenti il fuoco si alza. È sufficiente un pretesto, piccolo o grande che sia, e i volumi della protesta salgono di intensità. È il fastidio che alcune fasce di popolazione manifestano per la commercializzazione degli spazi e che si indirizza, in primo luogo, verso i marchi dell' industria straniera, «la disgrazia» come è stata chiamata. Era già accaduto nel 2002 con Kentucky Fried Chicken, fast food americano costretto (per fortuna) ad abbandonare dopo nove anni Beihai, il parco del dodicesimo secolo nel quale gli imperatori davano sfogo ai loro divertimenti. Probabile che anche Starbucks, a breve, debba traslocare. Pare infatti che le dimensioni della protesta abbiano indotto i responsabili della amministrazione monumentale a spostare il bar. Niente di male. Anzi. Resta da vedere, però, che cosa ne sarà delle bancarelle e dei ristoranti che, non meno di Starbucks, impoveriscono la magnificenza della Città Proibita. (Fabio Cavalera)
Condivido l'iniziativa.
Messaggio modificato da François Truffaut il 21 January 2007 - 03:11 PM