Sull'onda di Taiwan - Cinema di ieri e oggi
Retrospettiva sul cinema taiwanese a cura di JulesJT, François Truffaut, Shimamura, Ishta
con la collaborazione di battleroyale e paxy
Era da tempo che coltivavamo l’idea di proporre una radiografia del cinema taiwanese mettendo a confronto – come il titolo suggerisce – i due fenomeni più importanti che hanno attraversato gli schermi dell’Isola di Formosa negli ultimi trent’anni: da una parte la generazione del Nuovo Cinema degli anni Ottanta, dall’altra i loro successori della seconda new wave a partire dagli anni Duemila. La scintilla è stata la visione alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2014 di Flowers of Taipei – Taiwan New Cinema, il documentario-omaggio di Chinlin Hsieh che ci ricorda l’importanza di quella indimenticabile generazione di registi che reinventò il cinema taiwanese negli Anni ’80 attraverso il racconto di studiosi, cineasti e responsabili di festival internazionali. Ma un’ulteriore spinta è arrivata anche da una certa insofferenza nel constatare come le istituzioni e il mondo cinematografico in generale in Occidente siano stati passivi o addirittura indifferenti nel momento di celebrare l’anniversario per i trent’anni dalla nascita del Nuovo Cinema taiwanese. Nel nostro piccolo avevamo pensato di porre rimedio a una tale "dimenticanza" con una retrospettiva su un vero schermo cinematografico in collaborazione con gli amici di Sentieri Selvaggi, ma tutto cadde nel dimenticatoio e alla fine non se ne fece nulla. E ora eccoci qui a chiedervi di trasformare le vostre mura domestiche in un’ideale sala cinematografica in cui proiettare una selezione rappresentativa di quello che era ed è il nuovo cinema taiwanese, per scoprire/riscoprire, nonostante gli alti e bassi della sua storia, una delle realtà più vitali e importanti del panorama asiatico dagli anni Ottanta a oggi.
La comparsa del Nuovo Cinema. Negli anni Sessanta e Settanta l’industria cinematografia taiwanese sembrava scoppiare di salute: si producevano circa 250 film a soggetto per un circuito di poco più di 700 sale. Se pensiamo che la popolazione taiwanese dell’epoca era di circa 14-15 milioni e che la sua economia era ben lontana dal boom degli anni a venire, possiamo ben comprendere che il cinema era una delle attività che riscuoteva maggiore interesse sia come fonte di investimento che come intrattenimento. Tuttavia la quantità non andava di pari passo con la qualità: arrivò così il momento in cui, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, il consumo e la produzione di film segnò un tracollo. Molteplici le cause: il cinema taiwanese non riusciva a stare al passo dei film hollywoodiani (i più popolari tra il pubblico) e soprattutto sembrava schiacciato dalla spinta del cinema hongkonghese che si era rigenerato con un profondo rinnovamento nei generi (pensiamo alla commedia gongfupian), nella capacità di produrre spettacolo proponendo al pubblico una nuova generazione di autori (i registi della New Wave Ann Hui, Tsui Hark, Patrick Tam, ecc..) e nelle strategie distributive. Aggiungiamoci poi la crescente concorrenza della televisione, e il più grande nemico delle sale, ovvero le videocassette con la loro invasione di materiale illegale, ed ecco che avremo un quadro completo delle difficoltà che avevano colpito con un'accetta il cinema taiwanese.
(The Sandwich Man)
La svolta è nel 1982. In un momento di grande stagnazione produttiva e creativa la Casa Cinematografica Centrale (una casa di produzione sotto il diretto controllo governativo) decide di battere nuove strade, affidando un piccolo budget a quattro registi giovani senza alcuna esperienza nel lungometraggio, Edward Yang, Jim Tao, Ke Yizheng e Zhang Yi, ai quali viene chiesto di dirigere un film a episodi: In Our Time, in originale Guang yin de gu shi (Storie del tempo che passa). Dopo una non facile lavorazione durante la quale i registi si scontravano spesso con la produzione che esercitava un forte controllo sul loro lavoro, il film esce nelle sale e inaspettatamente riscuote un grande successo. L’anno dopo, il 1983, la Casa Cinematografica Centrale ci riprova: altri giovani registi emergenti, questa volta tre, Hou Hsiao-hsien (con alle spalle tre opere commerciali), Jen Wan e Zeng Zhuang Xiang, vengono reclutati per dirigere un nuovo film a episodi, The Sandwich Man, in originale Er zi de da wan ou (Un grosso pupazzo per suo figlio). La pellicola venne presa di mira dalla censura perché trattava temi scomodi agli occhi della politica (come l’influenza della cultura americana e giapponese): dopo un’aspra battaglia per la libertà d’espressione che trovò il sostegno di alcuni autorevoli giornalisti, il film riuscì ad arrivare nelle sale e ottenne un ottimo riscontro di pubblico. Tra i due film collettivi arriva nei cinema Growing Up (Xiao bi de gu shi) di Chen Kun-hao (con il quale Hou Hsiao-hsien stringerà un sodalizio negli anni successivi): un film che ebbe un successo inaspettato con una storia senza divi, senza lieto fine, forte di una carica realistica inusuale, lontana dai canoni di tutto il cinema taiwanese che circolava in quegli anni. Alla fine dello stesso anno Edward Yang, il più stimato tra gli autori di In Our Time, firma un film tutto suo, That Day, on the Beach (Hai tan de yi tian). Nello stesso periodo i tre registi di The Sandwich Man tornano subito dietro la macchina da presa: Hou con il suo primo film d’autore The Boys from Fengkuei (Fenggui la de ren), Jen Wan e Zeng Zhuang Xiang rispettivamente con Ah Fei (Youma caizi) e Wu li de xiaosheng, prime prove per entrambi alla regia di un lungometraggio. È in questo momento che nasce il Nuovo Cinema Taiwanese.
(The Boys from Fengkuei)
Ma cos’era il Nuovo Cinema taiwanese? Era una ventata di aria fresca in termini di contenuti e linguaggio da parte di un gruppo di registi che si sostenevano a vicenda per imporre le nuove basi produttive e artistiche di un “altro cinema” all’attenzione del pubblico, della politica, dei media (arrivando finanche a sottoscrivere una dichiarazione d'intenti, il famoso Manifesto del Cinema Taiwanese, pubblicato sul quotidiano Zhangguo Shibao nel 1987). Questi registi, estranei all’establishment produttivo (tant’è che molti erano rimasti per anni lontano da Taiwan per esperienze di studio all’estero, come nel caso di Edward Yang), si battevano per dare un’identità al cinema taiwanese. A quel tempo i registi più quotati erano “stranieri”, o per meglio dire waishengren, cioè persone che non avevano vissuto a Taiwan durante gli sviluppi della Seconda Guerra Mondiale e la cui lingua madre non era il dialetto del Fujian: i loro film erano girati in mandarino ed erano pervasi dai valori della vecchia Cina. Altri registi, come King Hu, professavano un cinema caratterizzato da una forte individualità stilistica. Poi c’erano i registi hongkonghesi, come Li Han-hsiang che cercava di ricreare a Taiwan modi e stile dei film in costume come si giravano a Hong Kong. Dunque prima dell’avvento del Nuovo Cinema i film erano molto lontani dalla realtà taiwanese. Hou hsiao-hsien e gli altri forgiarono il loro cinema mettendo proprio al centro dello schermo le esperienze di vita taiwanese, con uno sguardo all’ambiente reale che diventava una riflessione sulla terra in cui erano cresciuti. I registi del Nuovo Cinema erano in grado di interrogarsi con piena consapevolezza sui temi del passato e della maturità, del diventare adulti. Temi che sembravano un riflesso del difficile processo di crescita di Taiwan. Per il pubblico dell’isola era finalmente arrivato il momento di potersi identificare con personaggi, storie, situazioni che parlavano la loro stessa lingua e che sentivano più vicini alla loro sensibilità. Ed infatti l’iniziale successo al botteghino del Nuovo Cinema nasceva da una sorta di simbiosi tra le storie raccontate sul grande schermo e il comune sentire del pubblico.
L’altra grande rivoluzione del Nuovo Cinema è l’adozione di scelte stilistiche del tutto in controtendenza rispetto al "conservatorismo" di molti registi della generazione precedente. Lo sforzo di Hou e soci era finalizzato a concepire un cinema d’impronta realistico-poetica: le inquadrature insistite con macchina fissa, i campi medi e totali preferiti ai primi piani come a segnare una distanza dai personaggi, il montaggio ridotto ai minimi termini, il tempo dilatato della narrazione, lo sguardo su oggetti inanimati e spazi vuoti (spesso in relazione con il fuori campo) scandiscono uno spazio cinematografico originale, di estrema bellezza formale, pregno dell’idea di garantire una fedeltà al reale e di riflesso ai sentimenti dei personaggi. L’assenza di divi nel cast, la presenza della lingua taiwanese e la rinuncia al lieto fine erano altri elementi che volevano andare a intaccare anche certe convenzioni produttive dell’epoca.
(The Terrorizers)
Purtroppo la luna di miele tra il Nuovo Cinema taiwanese, i produttori e il pubblico non durò a lungo: ben presto l’elemento di novità portato dai registi emergenti non bastò per assicurare un sostegno duraturo ai film della nuova ondata. A differenza dei frutti dati dall’esplosione della Nouvelle Vague e del Nuovo Cinema Tedesco, che nel corso della loro storia riuscirono a prosperare dopo aver ottenuto una stabilità produttiva, la fioritura della primavera del cinema taiwanese si distinse per una bellezza splendente ma fugace. Il comportamento opportunistico di una parte importante del tessuto produttivo cinematografico, le ambiguità di una politica senza obiettivi per il sostegno all’attività creativa nel cinema, l’assenza di una critica cosciente del proprio ruolo di sostegno alla diffusione dell’arte cinematografica e le difficoltà del pubblico ad assimilare film contraddistinti da una forte vocazione autoriale, fecero in modo che la spinta al rinnovamento si esaurì nell’arco di pochi anni, costringendo autori importanti come Hou Hsiao-hsien ed Edward Yang a sopravvivere grazie soprattutto alla visibilità internazionale ottenuta in festival prestigiosi come Venezia (il primo a consacrare la grandezza del Nuovo Cinema con il Leone d’oro a City of Sadness/Città dolente nel 1989), Cannes e Berlino.
(Cape No.7)
New wave – Parte II. Ci sono voluti più di venticinque anni prima di rivedere una vera e propria rinascita del cinema taiwanese con una nuova generazione di registi (escludendo il troppo flebile il contributo di registi come Ang Lee all’inizio degli anni Novanta o della cosiddetta 7-Up Generation all’inizio del nuovo secolo). L’anno è il 2008, quando Cape No.7 di Wei Te-sheng diventa a sorpresa il film che ha incassato di più nella storia di Taiwan. È un nuovo inizio, perché incominciano ad affacciarsi sugli schermi i nomi di nuovi autori i cui film riescono a riconciliarsi con il pubblico taiwanese al botteghino come successe con il Nuovo Cinema e allo stesso tempo a conquistarsi visibilità nei festival internazionali (soprattutto Berlino con la sezione Panorama dedicata alle nuove correnti cinematografiche) al fianco dei “soliti noti” Hou Hsiao-hsien e Tsai Ming-liang: potremmo circoscrivere il campo a Lin Jing-jie (The Most Distant Course, che lanciò una delle star più amate degli ultimi anni, Gwei Lun-Mei), Cheng Yu-chieh (Yang Yang), Doze Niu (Monga), Arvin Chen (Au Revour Taipei), Hou Chi-jan (OneDay), Chung Mong-Hong (The Fourth Portrait), Cheng Fen-fen (Hear Me), Cheng Hsiao-tse (Miao Miao) e Cheng Wen-tan (Tears). Una galassia molto eterogenea di registi alle prime armi che, come i maestri del Nuovo Cinema, rivolgono lo sguardo a storie focalizzate sul passaggio all’età adulta, sull’esplorazione dell’identità, ma come tramite per una riflessione sull’universo dei sentimenti all’interno di una dialettica nel rapporto tra il passato e il presente, tra un prima e un dopo. Emblematico il caso di Cape No.7, che sembra una versione riveduta e corretta delle istanze dei maestri del Nuovo Cinema sotto forma di una narrazione più facilmente fruibile dagli spettatori. I registi della seconda new wave possono sembrare discontinui nei risultati, meno “autoriali” e più “autosufficienti” rispetto a Edward Yang e compagni, ma il loro cinema ha assorbito la lezione dei maestri mantenendo una prospettiva sociale e cercando di esplorare le strade di un linguaggio introspettivo moderno, con una strizzatina d’occhio al pubblico più giovane.
Dopo Cape No.7, il cinema taiwanese ha quindi trovato una sua nuova vita, non disdegnando però la guida autorevole di un punto di riferimento del passato come Hou Hsiao-hsien che, nelle vesti di produttore esecutivo, è tornato ad essere quel mediatore che negli Anni ’80 creava le condizioni di un rapporto pacifico tra i cineasti della nuova ondata e il resto dell’industria. Solo il tempo potrà dirci cosa ne sarà di questa seconda new wave.
(The Assassin)
I film proposti: i magnifici 12. Abbiamo cercato di selezionare i film più rappresentati della prima e della seconda new wave, con un mix di titoli inediti e riproposte spalmato in tre settimane. Consiglio di vedere i film seguendo un ordine cronologico: ogni settimana vi forniremo un calendario che tiene conto degli sviluppi del cinema taiwanese dagli Anni ’80 ad oggi. Si parte con quattro titoli del Nuovo Cinema, dal suo film-manifesto The Boys from Fengkuei alla sua consacrazione definitiva con City of Sadness; poi sarà la volta di Yi Yi, ultimo fuoco d’artificio di un cinema che appartiene ormai al passato prima del boom della nuova ondata: il film di Yang ci traghetterà alla (ri)scoperta di cinque film della new wave che ha iniziato a manifestarsi negli anni Duemila; infine uno sguardo al presente di due giganti come Hou Hsiao-hsien e Tsai Ming-liang con la paura di essere dinanzi a due grandissimi film-testamento: quello di Hou è forse l’estremo tentativo di resistere spostando il campo di azione firmando il primo film di genere (un wuxiapian molto atipico, ipnotico e misterioso), mentre il film di Tsai è probabilmente il suo ultimo lungometraggio per raggiunti limiti creativi e soprattutto fisici.
La domanda dopo aver letto tutto questo papello potrebbe essere: ma perché dovrei vedere questi film? Per scoprire un cinema “diverso” da tutto quello che abbiamo visto prima e che vedremo dopo, capace di deliziare gli occhi, di far riflettere sul legame tra l’individuo e la sua terra e di emozionare con storie vicine al quotidiano in cui potersi specchiare.
(Stray Dogs)
Per l’analisi dei vari film proposti, vi lascio alle recensioni dei singoli titoli, alcune delle quali già presenti in archivio nel caso delle riedizioni, mentre altre, quelle dei film inediti, arriveranno nei prossimi giorni.
Se avete la possibilità, recuperate il documentario Flowers of Taipei - Taiwan New Cinema di Chinlin Hsieh: molto utile per ripercorrere la stagione del Nuovo Cinema attraverso aneddoti, analisi e testimonianze (tra le altre quelle di Marco Muller, Wang Bing, Kiyoshi Kurosawa, Hirokazu Kore-eda, Jia Zhang-ke, Apichatpong Weerasethakul) di chi ha amato quel cinema.
Questa retrospettiva sarebbe stata impossibile senza il contributo e la pazienza di JulesJT: grazie di cuore. Ringrazio anche gli altri collaboratori: Ishta, Shimamura, battleroyale e paxy.
Buona visione a tutti e lunga vita al cinema taiwanese!
Di seguito il calendario della retrospettiva Sull’onda di Taiwan – Cinema di ieri e oggi:
Settimana dal 9 al 15 novembre
The Boys from Fengkuei (1983), di Hou Hsiao-hsien: 9 novembre
The Terrorizers (1986), di Edward Yang: 10 novembre *
A Time to Live and A Time to Die (1986), di Hou Hsiao-hsien: 11 novembre
A City of Sadness (1989), di Hou Hsiao-hsien: 12 novembre *
Settimana dal 16 al 22 novembre
Yi Yi (2000), di Edward Yang: 17 novembre *
The Most Distant Course (2007), di Lin Ching-chieh: 18 novembre
Cape No.7 (2008), di Wei Te-sheng: 19 novembre
Au Revour Taipei (2010), di Arvin Chen: 20 novembre
OneDay (2010), di Hou Chi-jan: 21 novembre
The Fourth Portrait (2010), di Chung Mong-hong: 22 novembre
Settimana dal 23 al 29 novembre
Stray Dogs (2013), di Tsai Ming-liang: 24 novembre *
The Assassin (2015), di Hou Hsiao-hsien: 27 novembre
* Film inediti
Messaggio modificato da François Truffaut il 25 November 2015 - 12:57 PM