Titolo originale: Kong bu fen zi (恐怖分子)
Regia: Edward Yang
Paese: Taiwan
Anno: 1986
Genere: Drammatico
Durata: 109'
Lingua: Mandarino - Min nan (Min meridionale)
Interpreti: Cora Miao (Zhou Yufeng), Lichun Lee (Li Lizhong), Shi-Jye Jin (Xiao Shen)
Seguendo le enormi, imprescindibili, orme di maestri come Bergman e Antonioni; così avanza i primi passi il “Nuovo Cinema di Taiwan”, forte di maestri come Tsai e Yang. Quest’ultimo, in una delle massime espressioni del proprio Cinema, realizza un’opera sospesa nel tempo, disturbante, che ricerca la veicolazione proprio nella stessa mancanza che veniva brillantemente espressa dal “Blow-up” del già citato cineasta italiano, attraverso un’immagine turbante e maledetta, che si interroga sulla vita attraverso una contemplazione dell’attimo e del presente quasi sacrale, indimenticabile in tutta la sua innata potenza espressiva.
Taipei. Le vite di quattro personaggi apparentemente estranei tra loro si incontrano e congiungono nell’apatia e nella follia stagnante della metropoli taiwanese. Quando l’affascinante membro di una gang giovanile minerà la tranquillità di nucleo familiare insinuando il dubbio dell’infedeltà tra i coniugi, ogni equilibrio verrà spezzato, portando il marito accusato di tradimento all’insanità mentale ed al tracollo e concludendo l’intera vicenda in una spirale di violenza terrificante quanto inaspettata. Ad osservare tutto questo un giovane fotografo, spettatore esterno antonioniano e proiezione delle angosce e delle morbosità di un’intera società.
Appare quasi come un intricato, insolvibile rebus questo straordinario giallo metafisico; un rebus senza chiave, un misterioso spiraglio sulla vita di persone tanto ordinarie quanto forse eccessivamente tali. Non è certo una risposta quella che vuole dare Yang in questa sua lodevolissima impresa, quanto probabilmente l’illustrazione tecnicamente efficiente del mondo d’oggi in tutto il suo complesso, eclettico substrato di angosce e di mancanze a livello ideologico. Vediamo difatti come nell’opera in causa venga a mancare completamente fin dal primo momento quella base di raziocinio normalmente data per scontata (banalmente semplificabile con il termine “normalità) che costituisce in seguito la base di ogni ulteriore sviluppo pregiudicandone il proseguimento. Proseguimento che andrà ad assumere i tratti di un’opera dove non si ricerca più il significato di un’azione, il suo apporto pratico, quanto al contrario la sua componente puramente simbolica, filosofica, si potrebbe quasi dire.
In questo modo dunque otteniamo in quanto spettatori l’effetto di assistere ad una serie di proiezioni a se stanti per significato e per fini, tutte precisamente collegate fra loro ma al contempo assolutamente differenti. Ciò che le collega e che fa da comune denominatore per l’intera totalità del film è il fattore umano, o meglio l’incognita umana. Quella sfuggente chiave di volta che priva di un vero e proprio significato quasi tutte le azioni che vediamo susseguirsi durante la visione, dalla chiamata improvvisata fino al tremendo epilogo. Una catena di drammi ai quali osserviamo increduli, la stessa che per certi versi non atterrisce in quanto tale, bensì per gli ancor maggiormente spaventosi connotati che assume a livello interpretativo e contenutistico. Ciò che rimane da fare è osservare, prendere atto consapevolmente, metabolizzare. Sebbene in modo molto meno enfatizzato anche qui, come in Blow-up la figura del fotografo diventa un tramite quasi extrasensoriale, privato del suo essere in quanto tale ed elevato al semplice grado di spettatore, inerme e in un certo senso onnisciente in quanto conscio dell’illogicità dello scenario a lui noto.
Da una vanificazione totale di ogni tipo di linearità sceneggiativa, dunque un punto di vista socialmente destrutturalizzato, arriviamo ad una concezione spazio-temporale del tutto nulla, assoggettata ad una serie di ramificazioni che, se sul piano personale assumono un connotato narrativo, di fatto vantano una valenza assolutamente simbolica e concettuale, affatto contestualizzate. Privata di tutto ciò, la pellicola si muove irremovibile su un piano astratto e, con un meccanismo comune ai lavori del maestro ungherese Béla Tarr, osserva gli avvenimenti lasciando lo spettatore inerme ed indifeso contemplatore di una tragedia moderna, di una terribile agonia umana ed esistenziale prettamente minimalista nella ripresa di particolari altamente simbolici.
Un film che non ha bisogno di commenti né di particolari letture, un atto d’amore nei confronti del più puro ed elevato Cinema mai intentato, un’esperienza visiva unica ed impareggiabile, un tassello fondamentale per l’evoluzione stessa del Cinema moderno. [fonte: cinepaxy]
Recensione: paxy
Traduzione: JulesJT
SOTTOTITOLI
(Versione: 1.36)
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Messaggio modificato da fabiojappo il 10 November 2015 - 05:11 PM