Inviato 22 July 2010 - 01:38 PM
Tsai Ming-liang è un regista rigoroso, nella sua impostazione fotografica dai lunghi pianisequenza, senza movimenti di macchina, con la sua predilezione per i toni freddi e le geometrie artificiali; ma i suoi film emozionano, sono profondamente umani, riflessivi ma immediati, terribilmente istintivi, nel rapporto col pubblico.
Ogni film di Tsai ha come tema l’amore, la ricerca dell’altro e l’impossibilità di raggiungerlo, per toccare poi i temi connessi della malattia, la solitudine, la perdita, attraverso una simbologia radicata nel corpo: l’acqua, la luce, il tempo nella sua irreversibilità. Temi semplici, per questo coinvolgenti, trattati in ognuno dei suoi lungometraggi da una prospettiva differente, ciascuno immerso in un luogo ben definito e accompagnato da precise scelte riguardanti il tono da adoperare, i dettagli da mettere in mostra, la possibilità o meno di lasciar scorgere un po’ di speranza o d’illusione, nei suoi finali spesso sospesi.
Visage è, per la prima volta, un film che ripete molte delle intuizioni e delle scelte già presenti nelle opere precedenti. Se questa debba essere letta come una scelta propria a Visage, o come un primo ripiegamento del regista sul suo vocabolario espressivo e narrativo, lo sapremo solo vedendo il suo prossimo film. Visage è dedicato da Tsai alla memoria della madre, scomparsa durante la scrittura dello stesso, ed è la summa di tutto quel che il regista ha creato sin qui. Si ritrovano allagamenti, come in The Hole, il chiudersi in casa, impedendo alla luce d’entrare dalle finestre schermate col nastro adesivo, come in Che Ora è Laggiù, ci sono anche personaggi, come il co-protagonista di I Don’t Want to Sleep Alone, che compaiono apparentemente senza motivo, richiamati direttamente dalla memoria dei racconti passati.
Commissionato dal Louvre, il film si svolge in parte a Taipei, e per il resto frequenta i luoghi più nascosti o inaccessibili del museo parigino: i sotterranei, delle scale di servizio, un parco imbiancato dalla neve finta...
Stavolta Tsai accoglie i fantasmi del suo cinema, come aveva evocato quelli degli spettatori di una sala storica in Goodbye Dragon Inn. Sul canovaccio di una Salomè da girare a Louvre, diretta dal suo attore e alter ego Lee Kang-sheng, compaiono i volti di Jean-Pierre Léaud, Fanny Ardant e Jeanne Moreau, e vengono richiamati i nomi, fra gli altri, di Pasolini, Fellini, Mizoguchi, Truffaut, Welles, Murnau nell’evocazione di uno spirito del cinema apolide e senza tempo, da offrire alla propria memoria, a quella dello spettatore e specialmente a quella della madre. Il tono di Visage è funereo e malinconico, privato dell’incertezza e indeterminatezza che avvicinava lo spettatore a ogni mancanza: questa volta si rimane soprattutto a guardare e ricordare, e anche l’ombra della macchina da presa su un muro, dove vibrano i riflessi dell’acqua, ci porta in una dimensione esplicitamente metafilmica, dove si dà uno sguardo alla concretezza di tutto quel che stava nascosto.
Non mancano, ad ogni modo, scene e figure che ritagliano lo spazio a nuove icone e nuovi ricordi. In particolare una bellissima Laetitia Casta, in una sequenza fortemente sensuale, è la protagonista di una “danza dei sette veli” senza musica, dove i rumori di fondo, molto accentuati, riportano tutto a una dimensione irreale, inquietante quanto affascinante. O ancora una scena canora, all’interno del bosco innevato, bianco come il lutto, dove alcuni specchi verticali, nascosti fra gli alberi, creano una scenografia straniante e suggestiva, di quella rara bellezza che Tsai Ming-liang sembra saper costruire con semplicità. Sono tanti gli specchi nel film, specchi in cui gli attori invecchiati osservano rughe e ferite, o specchi che vengono coperti, dalla Casta posseduta dallo spirito di Salomè, e specchi in cui si riflette la vita artistica di Tsai Ming-liang, il suo lavoro e la sua poesia.