Chi è Camus, ad ogni modo? Questa è la domanda principe che si nasconde dietro al pressante citazionismo letterario e cinematografico che sorregge quest'ultima fatica di
Mitsuo Yanagimachi, il regista di
Godspeed you Black Emperor, il film/documentario culto del 1975, che narrava la storia di una gang di motociclisti, violenta e ribelle, che scorrazzava per il Giappone ai tempi in cui in Europa e nel resto del mondo, imperversava il fenomeno del punk. Quest'ultimo film, a prima vista, potrebbe apparire meno estremo della sua opera prima, tutto ce lo lascerebbe pensare. I tempi e il contesto sono cambiati, nè i malumori, nè l'insofferenza sembrano avere quella forza eversiva che rappresentava l'inquietudine esistenziale della gioventù nipponica degli anni '70. La storia si ambienta ai giorni nostri, la location è quella di un campus universitario, i protagonisti sono dei comuni studenti, la cultura e la società appaiono ammansite, ragionevoli. Eppure, a distanza di 30 anni, le nuove ansie e i nuovi turbamenti, hanno, forse, radici più profonde e radicali. Seppur le convinzioni appaiono più deboli di quelle del passato, le passioni delle nuove generazioni si concentrano intorno ad esperienze meno definitive, senza più fanatismi. Gli studenti, qualsiasi sia l'indirizzo di studi scelto, convogliano le loro personali competenze per la realizzazione di un opera cinematografica, Ognuno partecipa come può all'insegna della collaborazione. Tutto il campus è impegnato a fare il cinema. Quest'accordo sostanziale in un progetto comune, questa sinergia che dall'inizio del film motiva gli amori, le sofferenze e gli sforzi di tutti i protagonisti e che apparentemente potrebbe apparire uno splendido e idilliaco soldalizio, nasconde delle terribili riflessioni. Le riflessioni più angoscianti che la filosofia della seconda metà del 1900 ha avuto il coraggio di portare a galla. E, tra mille citazioni esplicite e meno, e mille argomentazioni attorno al film preferito, oppure alla sequenza cinematografica più significativa, assistiamo alla raffigurazione del personaggio di
Adele H, il film di
F. Truffaut, piuttosto che a quella di
Gustave Aschenbach, il protagonista del romanzo di
T. Mann,
La Morte a Venezia, e dell'ononimo film di
Luchino Visconti. Ogni personaggio, può ricordare un eroe cinematografico, ogni studente sciorinare le sue preferenze e il suo gusto. Ognuno La sua visione chiara, del Cinema, la sua certezza. Ma quella domanda che ci riporta al titolo del film, non trova risposta. Si calcolano i tempi dei più bei piani sequenza, della storia, si contano i tagli dei film, si ricotruiscono i movimenti della macchina da presa, ma ciò che sfugge a tutti è la domanda sul senso stesso del film che stanno facendo e sul suo protagonista.
Perchè Takeda, uccide? E' la domanda che, letteralmente, ossessiona tutti. Qual'è la ragione che si cela dietro a un atto così orrido e violento.
Camus diceva che gli atti umani sono sempre inadeguati sia rispetto alle possibilità che ai desideri, sia rispetto al contesto mondano entro il quale vengono compiuti. Tutto ciò può apparire
Assurdo. Ed è proprio l'Assurdo di Camus a sorreggere e a strutturare questo film giapponese. Lì dove la sostanza stessa del cinema è fatta di ragione, previsione, progettazione, e collaborazione, lì dove il raziocinio, la logica e il dominio sulle cose e sugli eventi, richiede la massima concentrazione, arriverà
Takeda con la sua estraneità e indifferenza al mondo, a ricordarci che non tutto ciò che ci appartiene è sempre giustificabile. E che per qualcuno la realtà potrebbe non avere alcun senso. E' in questo pensiero insopportabile, in questa estraneità alle passioni, ai doveri e a tutti gli obblighi morali che diventa doveroso chiedersi che è Camus, ad ogni modo?
Messaggio modificato da nickmattel il 16 December 2006 - 12:40 PM