Perdizione (Dannazione)
(Karhozat)
di Béla Tarr
Anno: 1987
Nazionalità: Ungheria
Sceneggiatura: Laszlo Krasznahorkai, Béla Tarr
Fotografia: Gabor Medvigi
Montaggio: Agnes Hranitzky
Musica: Mihali Vig
Durata: 116 min.
Cast: Miklos B. Szekely, Vali Kerekes,
Gyula Paver, Hedi Temessy
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Perdizione è un film che racconta la caduta, un mondo dove tutto - la luce, gli oggetti, il clima, gli interni, i volti, la musica - trasuda di sofferenza, di fatiscenza; dove il tempo sembra regredire e lasciare il posto alla decomposizione. Un mondo senza futuro, senza cambiamento, dove due corpi che si amano sembrano quasi agonizzare, mentre il loro riflesso nello specchio è già un segno di separazione e di morte. Pure un momento di evasione e di spensieratezza come il ballo si trasforma in un agglomerato di movimenti trattenuti, di sguardi attoniti e ripiegati, nei quali si rivela una timidezza rassegnata. In uno spazio così pesantemente ristretto e disadorno, che alla fine si svuota in un disordine che non fa pensare al divertimento, ma è fatto dei rifiuti lasciati dall'impossibilità di godere, pur nella crudeltà oggettiva, dei piccoli piaceri che i comuni mortali inventano anche nelle situazioni più tristi. Si pensi alla bellissima sequenza della gente accalcata alle porte, mentre guarda la pioggia, con la macchina da presa che carrella lentamente, seguendo la parete. Un inserto apparentemente inessenziale sul piano narrativo, ma che realizza il senso di una vana, quanto inverosimile attesa.
L'occhio della macchina si erge a giudice di quegli sguardi, quando preclude ogni possibile oggetto di visione, sottolineando anzi l'energia dell'assenza, e quando li esclude materialmente, scivolando su un muro, la cui evidenza, la cui rugosità si trasformano in una sorta di cancro visivo; materia che cerca quasi di inghiottire il potere stesso della visione e dell'analogia. Al di là dell'eventuale indicazione metaforica, quel muro rappresenta l'altro dell'immagine in maniera corrosiva, tendente ad annullare una distanza che, in ogni caso, sarebbe una garanzia per il potere sublimante dell'espressione.
Angelo Signorelli, "Cineforum"
Béla Tarr compie in tal senso un'operazione chirurgica sulla concretezza della riproduzione cinematografica, che si traduce anche in una profonda interrogazione sulla bellezza. Ad una materia devastata, quale si è indicata prima, egli oppone una ricerca formale la cui meticolosità va di pari passo con l'intenzione di plasmare un'armonia e un'intensità visive che, senza togliere al referente la sua desolata consistenza, tengano in vita, nell'indicarne la possibilità, l'idea di un superamento "spirituale", di uno stupore del linguaggio, di un'utopia astratta, che sgretolano l'oggettività e ritrovano l'urgenza della creazione soggettiva. La visione del mondo non si riduce in tal modo a semplice interpretazione, ma richiama a sé la trasformazione dei segni, inventando il bello nell'esaltazione fotografica, nella suggestione sonora, nell'attrito esistenziale dei personaggi, nella drammatizzazione dei luoghi, e poi nelle costruzioni della macchina da presa, che spesso riesce a "pensare" la finzione con quel suo scorrere nello spazio, come a voler assolutizzare l'apparenza e traslarla nell'infinita variabilità dell'immagine. È questo un cinema che accetta il rischio della negazione anche sul piano della soddisfazione narrativa; i tempi del racconto non guidano la messa in scena, nel senso di una disposizione strutturale, ma è la presenza cinematografica a dettare i ritmi dell'esposizione. In questo modo la storia non viene confermata dal racconto, ma rimane frantumata, in lontananza, lasciando spazio sia alla riflessione che alla sensazione, le quali danno corpo ad una percezione amplificata, con una fortissima tensione tra quanto viene rappresentato e l'espressione che ne lavora la presenza. Lo stesso rapporto analogico non soddisfa più solo ad un'esigenza di riconoscimento; anch'esso viene sottoposto ad un "trattamento" che, nell'esasperarlo, in realtà lo riduce nella sua evidenza fenomenologica, diventando così esso a sua volta motivo di un processo di pensiero superiore. E qui si arriva al problema centrale di Perdizione: il tempo della rappresentazione. Il film procede per piani sequenza, che riducono il movimento della narrazione e che sembrano obbedire a tempi reali di svolgimento delle vicende. Quando la donna canta la sua canzone, la macchina da presa "rispetta" la durata del pezzo, muovendosi nel locale come a voler riprendere la totalità degli eventi in atto: la scena nelle sue disposizioni spazio-temporali, ma anche i sentimenti, le lacerazioni, i pensieri, i disagi interpersonali. È una lettura ingrandita di ciò che viene visto. In realtà la rinuncia all'elusione temporale nella formazione drammatica, l'aggiramento dell'ellisse rendono il cinema di Béla Tarr metafisico; esso cioè arriva ad assorbire completamente la realtà ed a rifrarla entro un processo ontologico di visione, che attribuisce appunto all'occhio artificiale un potere totalizzante che va oltre lo sguardo del soggetto. Si pensi infatti al ripetersi della circolarità interna nei singoli momenti; non è possibile infatti parlare di vero e proprio montaggio nei piani sequenza, nel senso almeno di una costruzione per piani, di un cambiamento dell'inquadratura che scandisca la necessità del significato. Qui il cinema non si predispone al compromesso per dare alla rappresentazione e allo spettatore la sintesi temporale che conservano il trucco della verosimiglianza e la garanzia dell'impressione di realtà. È invece un tempo "interminabile" poiché potenzialmente illimitato, che ritrova una sua riduzione nell'imporsi alla materia in cui si "realizza". In ciò si fa meditazione, autocoscienza, esplorazione riflessiva.
Angelo Signorelli, "Cineforum"
Perdizione si svolge in una dimensione tragica, ma nei limiti del ripiegamento dell'oggi. Si potrebbe parlare di tragedia della decadenza; dove il coro si esprime nel volto terreo di una guardarobiera, dove la lotta dell'eroe si conclude miseramente in un campo di rifiuti, tra i cani che rovistano e le pozzanghere che riflettono una luce livida, dove il fato dimora nelle stanze nude di un commissariato di polizia. Dove la sconfitta non significa nobiltà, la grandezza di chi combatte contro forze superiori ma con la disperata volontà della propria coscienza spezzata. Qui la sconfitta è sostanza storica, immersione nel tempo ordinato, imposto da divinità tanto oggettive da sembrare ormai ovvie, contro le quali non è possibile neppure usare più le contraddizioni del linguaggio, la critica della forma. In questo senso Perdizione è un film paradossale, poiché si sviluppa tra la trascendenza di una bellezza che nel segno apre infinite possibilità e l'immanenza di una negatività assoluta, che nell'immagine vuole imporre qualsiasi mancanza di futuro. Il significato tragico del film forse sta proprio in questa lacerazione estrema, che l'artista di oggi raramente è in grado anche solo di riflettere; la tragedia la si sconta ormai con la moneta del servilismo e dell'impotenza. Ma la grandezza di Perdizione è anche in questa sua carica provocatoria, per un cinema che sfida e sconvolge lo spettatore "combinando" il disagio con l'esaltazione estetica.
Angelo Signorelli, "Cineforum"
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Messaggio modificato da JulesJT il 20 December 2014 - 09:41 PM
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