Le armonie di Werckmeister
Werckmeister harmóniák
di Béla Tarr
Anno: 2000
Nazionalità: Ungheria / Italia / Germania / Francia
Sceneggiatura: Béla Tarr, Laszlo Krasznahorkai
Fotografia: Medvigy Gabor, Robert Tregenza, Novak Emil,
Jorg Widmer, Patrick de Ranter, Miklós Gurban
Montaggio: Agnes Hranitzky
Musica: Mihaly Vig
Durata: 145 min.
Interpreti principali: Lars Rudolph, Peter Fitz, Hanna Schygulla
Una piccola città di provincia nella pianura ungherese. Nonostante il freddo centinaia di persone stazionano attorno a un enorme camion parcheggiato in mezzo alla piazza, dove aspettano di vedere l’attrazione principale, la carcassa imbalsamata di una vera balena. M. Eszter, un uomo anziano, espone una teoria musicale che mira a ritrovare un’armonia superiore rendendo uguali i dodici semitoni della scala. La moglie, di ritorno dopo anni di assenza, chiede al giovane Jonas di convincere il teorico della musica a prendere il comando di un’associazione che ha lo scopo di epurare la città e riportare l’ordine. Ma Eszter si rifiuta, mentre la gente arriva da ogni luogo a riempire le vie della città. Una notte la furia divampa e una folla di uomini armati di bastoni mette a sacco l’ospedale. All’alba resta solo la carcassa della balena allungata sulla piazza mentre fissa il mondo col suo occhio morto.
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Le armonie di Werckmeister, film che consiste di 39 inquadrature in 145 minuti di durata, rappresenta una sorta di marchio di fabbrica della poetica di Tarr: uno stile estremamamente formale, calcolato fin nel minimo dettaglio, con personaggi che si muovono all'interno dei piani come ballerine di prima fila del Bolscioi, ed oggetti che dosano luci ed ombre con precisione farmaceutica, su un bianconero dall'espressività addirittura dolorosa. Il film, che si basa su un racconto di Laszlo Krasznahorkai (Az ellenállás melankóliája - La malinconia della resistenza, 1989), è così denso di espressioni simboliche da lasciare sconcertati nel tentativo di risolverne gli enigmi metaforici, quasi come se il regista - termine che davvero, in questo caso, merita la sostituzione con "autore", se non "artefice" - avesse chiamato lo spettatore a partecipare ai propri sogni, incubi, desideri, allucinazioni, domandandogli solamente di lasciarsi andare alla danza della macchina da presa, al ritmo martellante delle scene scandite dal passo incalzante dei personaggi. Il limite di Tarr, come lui stesso sostiene, si chiama Kodak: "quella fottuta Kodak che fa bobine di soli trecento metri, poco più di dieci minuti... Una sorta di censura...".
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La genesi del film è essa stessa una storia di vita difficile, con i suoi problemi di reperimento dei finanziamenti, di salute dei componenti del cast, di condizioni meteorologiche avverse; le difficoltà delle riprese - durate tre anni, ma con soli 68 giorni di girato vero e proprio - rispecchiano la precarietà dell'equilibrio del microcosmo rurale indagato da Tarr: un universo obsoleto, che si scontra con le esigenze della modernità e del mutamento, pretese dall'avvento della società dei consumi. Ma questa è una interpretazione sociologica: solo una delle deduzioni che possono derivare dalla visione del film, quando lo si collega al contrasto feroce tra i negozi luccicanti del Belváros di Budapest e il profilo monotono delle casupole immerse nel gelo novembrino, descritte dal regista. Il quale non solo non fa sociologia (caso mai psicodinamica delle masse), ma invita a considerare la sua opera come una luce gettata sulla realtà di un'Europa vicina, troppo vicina per non volerla vedere.
[...] Lontano come la luna dagli standard ai quali il predominio del marketing ci obbliga, nella forma della comunicazione come nella sostanza del comunicato: un cinema teso, sudato, che promette lacrime e sangue e restituisce gioia per il senso della vista.
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P.S.: grazie lo stesso a polpa per essersi offerto per la revisione.
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Messaggio modificato da JulesJT il 20 December 2014 - 07:48 PM
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